Consapevolezze – Barlocco: “Tornare a fare gli incantati”

Credit: AC Trento

Il 26 giugno 2023 la mia vita è cambiata. Un normale giorno d’estate. L’inizio di un incubo. Ero a casa e stavo facendo dei lavoretti. È successo il peggio. Tum.
La forca del muletto mi cade sul piede. Ricordo solo il dolore incredibile che provai. Frattura scomposta di tutte e cinque le dita del piede, sangue ovunque. Guardai il piede e capii tutto. L’ansia salì, mi agitai. Terrore, paura, angoscia. Avevo investito tutto per il sogno di fare il calciatore. E in quel momento per uno stupido lavoretto era tutto finito. Svanito in pochi attimi. “Come faccio? Che ne sarà della mia vita?”
Un dipendente della ditta di papà mi porta all’ospedale. Si apre la porta del furgone, è papà. Mi basta vedere la sua faccia per capire la gravità della situazione. Mi portano d’urgenza in una sala. Con me entra mamma, papà non ce la fa. Mi sedano più volte, il male è inimmaginabile. Mi fanno i raggi e le lastre. L’ematoma corre su per la gamba. “C’è bisogno di un intervento immediato”. Durante il tragitto il medico cercava di tranquillizzarmi. “Non è come sembra”. Ero in lacrime. “Voglio tornare a giocare”. Quando seppe che ero un calciatore, il suo volto cambiò. “Non ti assicuro nulla, è quasi impossibile”. Un incubo. Un vero incubo.
L’operazione è durata due ore, ero confuso per la morfina. Ero ancora vestito da lavoro, c’era sangue ovunque, il piede era tutto fasciato. Quando entrarono mia madre e la mia ragazza scoppiai in un pianto infinito. Davanti agli occhi mi passarono tutti i sacrifici, le scelte, l’addio allo sci per il calcio il lavoro fatto per inseguire il mio sogno. “Potrò ancora fare una passeggiata? Devo dire addio al calcio?”. Ero impotente. Non riuscivo a essere positivo. Ansie e paranoie erano le mie compagne di stanza. Stava svanendo tutto. Niente aveva più senso. Niente. Nella mia testa c’era sempre e solo un pensiero: “Tornerò a giocare?”.
Ho passato una settimana in ospedale. “Non camminerà più”. “Dovremo amputare il piede”. “Se torni a camminare è un miracolo, scordati di giocare a calcio”. Di notte non riuscivo a dormire. Ero lì solo in una stanza di ospedale insieme al mio piede. I pensieri continuavano a scorrere per la testa. Incessanti, non si fermavano mai. Non ce la facevo più. Mi sentivo inerme. Un futuro distrutto. Non mangiavo, non bevevo. Ero un vegetale. In una settimana persi 20 kg, non riuscivo a reggermi sulle stampelle. Speravo di svegliarmi e che fosse tutto un brutto sogno. Ma non era così. Era tutto vero. Era la realtà. Su quel lettino c’eravamo io e il mio piede. “Perché?”. Non stavo bene. La mia testa e il mio cuore non stavano bene. Vivevo nel malessere. Era tutto buio, non vedevo spiragli di luce. “Perché io?”.
Inseguire un sogno
Avevo dato tutto per il calcio. Avevo iniziato nella squadra del mio paesino di neanche 2mila abitanti in Friuli. Intanto facevo anche sci di fondo, ero bravo. Mi ha dato tanto. È uno sport che ti costringe a fare i conti con te stesso, ti aiuta a crescere come persona.
Fin da subito scelsi la porta e i guanti, mio padre era stato un portiere. Lui mi consigliava di scegliere lo sci, ma io volevo altro. A 15 anni ho deciso invece di lasciare le piste e proseguire con il calcio. Lui all’inizio non era molto contento della scelta.
Erano un paio di anni che ci pensavo, ma non avevo mai trovato il coraggio di mollare lo sci. Nel 2018 diedi l’addio dopo una gara del campionato italiano. Alla partenza c’era mio nonno. “Sarà l’ultima volta che mi vedrai partire”. È stato il primo a saperlo. Gli avevo fatto la promessa di vincere un titolo italiano prima di smettere, per fortuna sono riuscito a mantenerla. La sera di quel giorno poi sono tornato a casa e l’ho detto ai miei genitori. Non è stato facile. Mi lasciavo alle spalle tanto: dieci anni di ricordi, i sacrifici dei miei per portarmi in giro per le gare. Nel 2018 passai all’Udinese, poi andai in prestito dopo qualche stagione in Serie D al Cjarlins Muzane. Poi è arrivata quella pausa estiva…

Futuro?
Sono entrato in ospedale che pesavo 90kg, sono uscito che a malapena arrivavo a 70. Tutto in una settimana. Non stavo in piedi, non riuscivo neanche a reggermi sulle stampelle. Perché non mangiavo? Non provavo appetito. Da una parte per effetto della morfina, dall’altra per il malessere e la tristezza che stavo provando. I medici mi dissero che se non avessi iniziato a fare qualcosa sarebbero intervenuti. Iniziai bevendo un bicchiere d’acqua al giorno. Il primo sorso la mattina, l’ultimo la sera prima di dormire. Una sensazione bruttissima. Ero impotente, dipendevo dagli altri. Mi specchiavo e vedevo la faccia scavata, le ossa del corpo.
Quando tornai a casa rimasi in sedia a rotelle per settimane. Erano situazioni che non riuscivo più a gestire da solo. Per alzarmi dal divano dovevo chiedere aiuto a qualcuno. Non avevo la forza neanche di aprire una bottiglietta d’acqua. Più il peso dei pensieri nella mia mente. Cercavo di non farmi vedere giù dai miei. Quando ero da solo mi sfogavo. Pianti, lacrime, momenti di crisi. Con la mia ragazza mi sfogavo ogni tanto, con la mia famiglia mai. Tranne una volta. Se chiudo gli occhi la rivedo, come se fosse ieri. Ricordo bene quella sera. Eravamo seduti sul divano con i miei genitori e mia sorella. Iniziai a urlare in lacrime. Mia madre scoppiò a piangere, mio padre se ne andò in camera. Mio padre subì tutto in prima persona. Per un mese non mangiò. Aveva perso il sorriso. Nei suoi occhi vedevo tristezza, sensi di colpa, sofferenza. Non dormiva la notte.

Luci
Una volta a settimana avevo le medicazioni. Ogni volta c’era curiosità di sapere come fosse messo il piede, come se un po’ di speranza tornasse a vivere in me. Durante una medicazione è cambiato qualcosa.
Era passato più di un mese dall’operazione. Entrammo nella sala. Trovammo un nuovo medico per il controllo. “Il piede sta migliorando”. Papà mi strinse il braccio come a dirmi “ce la stiamo facendo”.
È stata la prima volta che sono tornato a sorridere con lui. Appena usciti chiamò chiunque per fare la bella notizia.
La settimana dopo tolsi i ferri. Avevo un’infezione in atto, il mio corpo stava espellendo pezzi di osso. Un dolore.
Papà mi costruì una palestra a casa in pochi giorni. Il deposito delle bottiglie di vino ho mio nonno si trasformò in un centro di allenamento con tanto di piscina.
Tornato a casa iniziai ad allenarmi lì con lui in palestra e a curare la mobilità del piede con un dottore. Una sera ero a fare allenamento in palestra da solo. Arrivò il nonno. “Come stai Sergio? Torni a giocare vero?”. “Sto facendo il possibile”. “Pensi di farcela?”. “Spero, ma ti prometto che ci proverò, non mollerò prima di essermi rimesso in gioco. Continuerò a inseguire il mio sogno”. È stata la nostra seconda promessa.
Tornare a fare gli incantati
La prima volta che tornai a camminare? Con mia mamma a fare funghi nel bosco. Noi abbiamo una proprietà in cima a una montagna, mi ci portava sempre mio nonno.
Mia madre non voleva, io lasciai le stampelle in macchina. Quando mi ha visto è scoppiata in lacrime. Quando siamo tornati a casa c’erano mio papà, mia sorella e la mia ragazza. Entrai con le stampelle, poi le mollai e camminai. Erano increduli.
Vedete, tornare a camminare in quel luogo è stato un segno del destino, un cerchio che si è chiuso. Quel posto la sento come casa mia. Ricordo sempre quando mio nonno veniva e mi diceva: “Andiamo a fare gli incantati”. Partivamo e andavamo lì, sdraiandoci sull’erba e guardando il cielo. Restavamo lì per ore a osservare il nulla, un posto del mio cuore. Sono tornato altre volte a fare l’incantato da solo nelle settimane successive. Mi mettevo lì nell’ora del tramonto a pensare. L’incidente e l’ospedale nei mesi prima, i ricordi col nonno, il mio percorso… mi faceva bene. Bene al cuore.

(Ri)Vivere
Il giorno dopo essere tornato a camminare, ho riprovato le scarpe da calcio. Poi sono arrivati i primi palleggi e le prime volte al campo sportivo con papà. All’inizio quando calciavo la palla finiva dalla parte opposta di dove volevo, ma andava bene così. Ricevetti qualche chiamata. Alla fine scelsi il Trento. Il direttore Zamuner si era sempre informato per sapere come stessi, come andasse il recupero. Tornare ad allenarmi in una squadra? È stato strano. Mi sentivo un pulcino. Società e compagni sono stati fondamentali. Mi hanno dato fiducia. Ero un ragazzo che non aveva mai giocato in C, fermo da tanto dopo un grave infortunio. Non era scontato. Sono grato a tutti.
Quando è finito l’incubo? Al fischio finale dell’arbitro alla fine della prima partita. Era un match di Coppa Italia contro la Virtus Verona. Una sensazione unica. E poi vedere la mia maglia con il cognome sulla maglietta qualcosa di straordinario. La prima persona che chiamai fu mio nonno. Non riusciva a parlare dall’emozione. Quei mesi mi hanno dato la più grande lezione di vita. Ho imparato a dare la giusta importanza a quanto accade ogni giorno, ad apprezzare le piccole cose. Continuerò a sognare, perché i sogni non hanno limiti. Continuerò a incantarmi, lo prometto.