Home » Consapevolezze – Ndiaye: “In viaggio per un sogno”

Consapevolezze – Ndiaye: “In viaggio per un sogno”

Maissa Ndiaye in Senegal

Me lo ricordo quel giorno.

Erano le 18 quando il mio nipotino mi chiamò. Eravamo molto legati. Pregava sempre per vedermi giocare in tv. “Maissa dove sei? Io sono a casa, non mi sento bene. In ospedale mi hanno detto che ho un problema al fegato“. Il giorno dopo quella telefonata andai da lui. “Il ragazzo non ce la farà, la malattia è in uno stadio troppo avanzato”. Per un mese lasciai l’accademia in cui mi allenavo per stargli vicino. Dopo tre settimane se ne andò.

L’immagine di quella notte non mi lascerà mai. Dormivamo insieme nello stesso letto. Se chiudo gli occhi rivedo tutto di quelle ore. Rimasi sveglio fino alle 3 di mattina, poi mi addormentai per un paio d’ore. Alle 5 mi risvegliai, una sensazione strana mi attraversò. Capii subito.

Non c’è più, se n’è andato”. Voleva vedermi giocare in Europa. Gli avevo promesso che dopo il primo contratto gli avrei pagato gli studi. Non ho fatto in tempo. Li pago a suo fratello. Lo porterò sempre nel cuore. Mi ha dato la forza di attraversare il Mediterraneo per rincorrere il mio sogno. Lo dovevo a lui. Lo devo a lui. La vita è così, è vero. Ma fa male, tanto male.

Quello che sono oggi lo devo anche a lui. Mi ha trasmesso la sua forza. Quel giorno ho deciso deciso di lasciare il Senegal. Dopo la sua morte è iniziato il viaggio che mi ha portato qui. Sono arrivato con un barcone in Italia, ho rincorso quel pallone, ho pianto la morte di mio padre a km di distanza. Tutto con un’idea in testa: “Devo diventare un calciatore, non ci sono alternative”.

Un gommone per l’Italia

La mia storia parte nel 2002 vicino a Dakar. Con il calcio ho iniziato tra la spiaggia e le strade del paese e il campo in sabbia vicino a casa che porta il nome di mia madre. Giocavamo con scarpe di plastica e palloni di scarsa qualità, ma per noi era tutto bellissimo. Sono nato in una famiglia modesta. Decisi di mollare gli studi per il calcio. Lasciai la casa per andare a vivere mio cugino che abitava vicino a un’accademia. Non era facile costruirsi un futuro in Senegal. Nella scuola calcio mi fecero subito capitano. Arrivavo sempre prima per allenarmi da solo. Il campo distava 7 km da casa mia. A volte andavo a piedi. Anzi, di corsa.

“Maissa vuoi venire con me? Hai il coraggio di salire un barcone per l’Europa?”. “Sì”. Il mio viaggio iniziò così, con quella domanda di mio fratello. Alla mia famiglia dissi che dovevo andare via per qualche giorno per un torneo con la squadra. Dopo qualche giorno scoprirono tutto. Mio padre mi chiamò: “È vero?”. “Sì, voglio andare”. Con mio fratello e dei suoi amici prendemmo dei pullman per arrivare in Libia, poi a piedi fino al punto di ritrovo in mezzo alla foresta. “Non hai paura Maissa?”. “No, tanto andrà tutto bene”. Anche se ero il più piccolo, ero il meno spaventato. “Se arriverò in Europa, diventerò un calciatore”. Ne ero sicuro. Ero pronto a lasciare tutto. Avevo 16 anni.

ndiaye-moglie-interno

Tra cielo e mare

Arrivati nella foresta gli scafisti separarono me e mio fratello. Rimasi solo con un suo amico. Le foreste spesso erano controllate dai poliziotti che cercavano i migranti pronti a partire. Due volte ci trovarono e ci riportarono al di là del confine. Un’altra volta, invece, partimmo col barcone ma tornammo indietro perché c’era la guardia costiera. Poi arrivò quella sera. Eravamo in 56. Ancora oggi a ripensarci provo una sensazione strana. Dubbi, paura, esaltazione. Tutto insieme. Non è semplice spiegarlo. Galleggi sull’acqua nel buio totale, immersi in mezzo al nulla. Arriveremo? Succederà qualcosa? Vedremo la terra? Incertezza.

Negli occhi di ogni persona leggevi la loro vita, il sogno di un futuro migliore, il terrore di morire. Alcuni vivevano momenti di panico. Non era semplice mantenere la calma. Si bucò anche il gommone. “Ce la faremo, non ho paura”. Me lo ripetevo in testa. Poteva succedere di tutto. Bastava una tempesta… Il viaggio durò due giorni. Molti chiedevano di tornare. La sensazione peggiore? Essere di notte in mezzo al nulla, nell’incertezza totale. Non distinguevi il mare e il cielo. Tutto buio. Devi avere coraggio. Coraggio e un sogno in cui credere. Lasci famiglia, casa… lasci tutto. Senza sapere se sopravviverai e cosa accadrà. Alla fine si è da soli in un Paese sconosciuto.

Guardate, i palazzi all’orizzonte. Una sensazione inspiegabile. Un’esplosione di gioia. Iniziai a ridere. “Perché ridi?”, mi chiese il mio amico. “Ho visto i palazzi, siamo arrivati”. Sembravo un bambino. “Ce l’ho fatta”. Ciao, Italia. Arrivò la nave dei soccorsi italiani. Tutte le persone sul gommone iniziarono a cantare e festeggiare. “Siamo salvi”.

Papà, ciao

I miei genitori li ho risentiti quando sono arrivato a Napoli, due settimane dopo la mia partenza. Non li ho ancora rivisti. Mio padre non lo rivedrò più.Quando torni? Mi manchi”. Me lo ripeteva sempre. Ero al secondo anno alla Roma. “Papà tra poco mi faranno un contratto. A fine anno tornerò in Senegal per rivederci”. Era il 17 settembre 2021. Vincemmo 4-0 contro l’Atalanta. Di solito dopo le partite controllo il telefono. Quel giorno lo lasciai nello zaino e andai con Darboe a casa. A un certo punto guardai il cellulare. La mia nipotina aveva messo una foto di papà con la faccina con le lacrime. La stessa cosa altri parenti. Chiamai a casa. “Ma è successo qualcosa a papà? È morto?”. “Sì”.

Andai fuori di testa, piansi tutto il giorno. Volevo andare in Senegal, i miei parenti mi dissero di rimanere in Italia e concentrarmi sul calcio. Mi dissero di pensare a quel sogno che mio padre mi aveva permesso di inseguire. Dopo qualche settimana firmai il mio primo contratto. Mio padre è stato fondamentale. Mi ha insegnato i valori più importanti della vita. Rispetto ed educazione, lui è stato tutto per me. Mi ha lasciato la libertà di seguire la mia passione. Tornare a casa? Sì, è giunto il momento. A fine stagione tornerò.

ndiaye-roma-credit-martinacutrona-interno
Credit: Martina Cutrona

In viaggio

Ma torniamo a Lampedusa. Dopo qualche giorno andai a Napoli in una casa famiglia. La cosa che mi spaventava di più era la lingua. Appena arrivati chiesi di andare a scuola per imparare l’italiano. Vivevo tutto con entusiasmo. Quando andavo a letto non vedevo l’ora del mattino successivo. Poi arrivò l’Afro Napoli. Da lì è partito tutto. Passarono due mesi e feci il provino il Napoli. Poi arrivarono c, Atalanta, Juve e Milan. Andai a Trigoria, ero troppo felice. Quando entrai respirai un’aria diversa. Ero al bar del centro sportivo, arrivò Totti. Andai a salutarlo con il mio procuratore. “Ciao, in bocca al lupo per il provino”. “Crepi, grazie”. Senza parole.

Mi allenai con l’U18 giallorossa. Il secondo giorno feci confusione coi campi e andai in quello della Primavera. L’allenatore era Alberto De Rossi. Era sorpreso di vedermi. Darboe mi aiutò a presentarmi. Alla fine mi fermai con loro. No, non solo quella volta. Per tutta la stagione. L’anno successivo passai in Primavera. Fu l’anno del contratto. Che emozione, in quella firma c’era tutto. La scuola lasciata, i km a piedi per andare al campo, la promessa a mio nipote, il viaggio in barcone, la mia famiglia e mio papà. Quel giorno tornai a casa e piansi. Pensavo a mio padre, alla nostra ultima chiamata, al mio nipotino. Tutto.

José

A De Rossi devo tutto, è stato come un padre. E poi Mourinho, che uomo. Ricordo ancora la prima volta che lo incontrai. Quando ero in Primavera mi chiamò per allenarmi con la prima squadra. Da quel momento andai diverse volte con loro. Con Mourinho creai un bel rapporto. Mi chiese del Senegal, mi raccontò di quando ci andò per una scuola calcio, di quanto amasse il mio popolo e si fosse sentito a casa. Io vivevo al centro sportivo. Quando la sera si fermava a mangiare con lo staff, mi invitava al tavolo con loro. Mi dava sempre consigli.

Mourinho non è razzista. Ho letto quanto detto in Turchia, non è vero. Lui diceva sempre che qualche squadra africana avrebbe dovuto vincere i Mondiali. Non ha mai avuto preferenze in base al colore della pelle o della nazionalità. Lui è più di un allenatore. È un padre, un riferimento, un educatore. Mi dava sempre consigli, come se fossi un figlio. Quando l’ho affrontato con la Cremonese è venuto a cercarmi per salutarmi. “Sei felice qui?”. “Allora lo sono anche io”.

ndiaye-roma-interno-creditmartinacutrona
Credit: Martina Cutrona

Sognate, vivete

In estate sono arrivato alla Turris. È un anno duro. È pesante vivere una stagione così. Eravamo partiti bene, poi sono arrivati i problemi con i pagamenti. Il campo è passato in secondo piano. Non ci siamo arresi fino all’ultimo minuto. Avevamo finito la palestra ed eravamo pronti a un altro allenamento, poi è arrivata la notizia dell’esclusione. Un bel gruppo, una tifoseria fantastica… tutto finito. Che dolore… Ero arrivato con entusiasmo anche per avvicinarmi a mia moglie. È una persona fondamentale per me. Lei è di Roma, ci siamo conosciuti a Trastevere. Ora siamo marito e moglie. E devo ringraziare Pietro Varriale, la prima persona che qui in Italia mi ha accolto. Mi ha sostenuto, c’è sempre stato per me.

A fine stagione tornerò in Senegal. Solo al pensiero mi viene da piangere. Se ripenso al mio passato mi dico “bravo”. Rifarei tutto quello che ho fatto. È stato un viaggio bellissimo. Sono grato per quello che ho passato, mi ha reso l’uomo che sono. Sette anni fa non avevo niente, ora sono qui. Ho sempre creduto nel mio sogno. Una vita senza sogni, non è una vita. Sognate. Vivete.