Le prime luci del mattino iniziano ad affacciarsi timide. Un ragazzo cammina. Un passo alla volta, senza fretta, segno della sua calma e serenità. Quelle luci le conosce bene. Ne apprezza le sensazioni che donano e la gentilezza con cui si mostrano. La calle è alle spalle, quel ragazzo si ferma. Lo sguardo si perde verso l’orizzonte disegnato dall’incontro tra il mare e il cielo. “Venezia è casa mia, la squadra di cui sono tifoso”. Riccardo Bocalon è figlio di quella città e di quei canali. Un legame d’amore sincero. Sincero come l’emozione che gli colora gli occhi mentre ne parla. Gli occhi del “Doge” si chiudono. Quella foto con Recoba, le partite viste allo stadio con suo papà, quella maglia poi difesa in campo, fino a quel gol. La corsa che attraversa il Penzo, la A conquistata, il corteo acqueo fino a Piazza San Marco. Il calcio era tornato a Venezia grazie al suo figliol prodigo.
Gli occhi si riaprono. Quell’orizzonte ora si è dipinto di nero e di azzurro. I colori del suo Renate. I colori dell’Inter, la squadra che lo ha formato “come giocatore e professionista”. Nel mezzo c’è una storia.
È la storia di un bambino che è riuscito a essere profeta in patria. In questo viaggio ci sono dei gol decisivi, una frase di Mourinho, l’amore per una città e appuntamenti che sono stati conquistati. E, soprattutto, ci sono l’umiltà e il sacrificio di un uomo, “perché i sogni non arrivano da soli, bisogna lavorare per raggiungerli”.
“Bravo bravo Bocalon, fai sempre gol”. Parola di José Mourinho. “Lui probabilmente non se lo ricorderà, io ce l’ho impresso nella mente”. Riccardo Bocalon arriva all’Inter quando in panchina c’era il portoghese: “Qualche volta sono andato con la prima squadra. È stato come salire su una navicella spaziale”. Alla guida, lo Special One: “Mi ha impressionato. Conosceva tutto di noi giovani, dal nome al piede con cui si calciava”. Una carriera iniziata da piccolo: “Ho praticato diversi sport. Nuoto, basket e calcio”. Ma “nei temi a scuola scrivevo sempre che il mio sogno era di fare il calciatore”. L’esperienza a Treviso e poi la chiamata dei nerazzurri: “In famiglia sono tutti interisti, quando è successo non ci credevamo”. Una scuola di vita: “Ho compreso il significato di essere un calciatore. Ti creano come professionista vero e proprio”.
“Venezia è tutto. Casa mia e di mia moglie, dove è nato mio figlio e dove vivremo. Per me è la città più bella del mondo”. Ne parla con amore e affetto. Sentimenti nobili e puri, come il suo animo e il suo legame con la sua terra: “Da piccolo andavo allo stadio con mio papà e mio nonno. E poi quella foto con il Chino Recoba…”. Dagli spalti a idolo: “Ho avuto la fortuna di tifarlo prima in curva e poi di essere protagonista con campo”. E due volte su tutte il suo nome è riecheggiato nell’aria della Laguna. La mente torna a quelle immagini: “La prima volta in C2, vincemmo i playoff superando il Monza con una mia doppietta”. E poi la seconda, ancora più speciale, con la rete decisiva per la promozione in A: “Un gol che mi ero scritto la notte prima. Me lo ero immaginato e visualizzato. Mi piace farlo nei momenti importanti, ti prepara emotivamente”. Alla fine dell’ultimo allenamento “chiesi a Zanetti di farmi giocare qualche minuto”. “Basta che fai gol”, in dialetto vicentino. “Non ti preoccupare mister”. Promessa mantenuta.
27 maggio 2021. Venezia Cittadella, 93’: “Entro e segno. In quel momento non capisci più niente. Ho l’immagine della mia corsa con tutti i miei compagni che mi rincorrevano. E poi il corteo e Piazza San Marco”. Il Doge ha segnato. Il Doge ha riportato il suo popolo in Serie A. Un bambino diventato uomo. Un uomo che ha aiutato a far rinnamorare una città del calcio. E forse questo era il suo compito. Un compito che solo chi è figlio di quella città poteva comprendere e compiere. Discreto e mite, come un orizzonte in Laguna. Elegante e rispettoso, come le parole di Riccardo nel raccontare i mesi successivi. La promozione da eroe. Poi la decisione di metterlo fuori rosa e la delusione per la mancata opportunità di giocare in A con quella maglia: “Venezia è casa mia, la squadra di cui sono tifoso. Non potrei mai portare rancore. Certo, ero dispiaciuto ma non potevo denigrare chi mi ha permesso di tornare a vestire quei colori”. Mesi lontano dalla squadra: “Sono stato testardo e sono voluto rimanere in estate. È stata dura, non puoi fare quello che ti piace. Tornassi indietro quei tre mesi non lo rifarei, ma è stato un motivo di crescita. Sono fortunato ad avere mia moglie, una donna ‘con le palle’”.
Nel mezzo le tappe di un viaggio. Gol, partite e un percorso di crescita personale. L’impresa di Portogruaro, una squadra “nata per salvarsi, mossa dalla voglia di dimostrare. Vincemmo la C”. Il gol decisivo? Facile, Bocalon. La storia scritta con l’Alessandria in Coppa Italia: “La rete con il Genoa agli ottavi e poi la doppietta ai quarti con lo Spezia, fino alla semifinale contro il Milan… Abbiamo spostato migliaia di persone e unito una città intera. Bei ricordi”. L’affetto di Salerno: “Una delle piazze più affascinante d’Italia. Lì ti senti realizzato per l’affetto che ti donano”.
L’arrivo a Trento “l’ultimo giorno di mercato con il rischio che saltasse tutto per un blackout con il rischio di fare altri mesi fuori rosa a Venezia”. Il Mantova e l’esperienza in D nella prima parte di stagione con l’Aglianese, fino alla chiamata a Renate: “Mi sono sentito voluto. È la società giusta per me e le motivazioni che ho”. Uno il principio: “Ho sempre cercato di andare dove mi sentivo apprezzato. Ho messo davanti il lato umano ai soldi”. A Renate ha ripreso da dove aveva lasciato, con un gol. Un gol in rovesciata: “La stessa emozione della prima volta”.
“Ricordo una frase di Del Piero”. Se la ripete, come fosse una stella polare: “Nella mia carriera ho visto tanti sognatori che però quando c’era da sudare hanno smesso di sognare”. “Perché vedi, non basta sognare. Bisogna avere la voglia di lottare per costruirsi il proprio cammino”, spiega con calma Riccardo. “Ed è quello che ho cercato di fare. Essere fedele ai miei valori nel calcio come nella vita”. Non ho mai pensato di avercela fatta. Quando finirò la mia carriera mi guarderò indietro. Ora ho troppe motivazioni per farlo”. Ripensando alla carriera: “Non ho mai pensato di avercela fatta. Quando finirò la mia carriera mi guarderò indietro. Ora ho troppe motivazioni per farlo. Io umile? L’umiltà penso sia un concetto astratto, chiunque può dire di esserlo”. Forse è vero, è un concetto astratto. Ma Riccardo Bocalon è una di quelle persone che si avvicina di più a dar concretezza a quel concetto. Umiltà e “positività. Aiuta a visualizzare meglio il percorso e a dargli una tua impronta”.
Perché forse è vero. Non esiste il destino, esistono gli appuntamenti. Il primo ha in sé una sfumatura di passività, agli appuntamenti devi andarci. “Così si incontrano le emozioni”. È ora di andare. “Hai bisogno una mano per sistemare?”, chiede sorridendo. E il segreto si nasconde lì. Riccardo Bocalon.
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