Uomo di un calcio che non esiste più. Il primo in assoluto a comparire nell’album delle figurine “Panini”. All’età di 82 anni si è spento Bruno Bolchi, chiamato “Maciste”. Proprio come il personaggio mitologico creato da Gabriele D’Annunzio e utilizzato nel film “Cabiria” di Giovanni Pastrone. In un due sole parole forza e volontà, proprio come la creatura a cui era stato paragonato. Una persona dall’immenso carisma. Una personalità da vendere. Capitano dell’Inter già a 21 anni, dopo l’esordio arrivato 3 anni prima (a 18). Erano gli anni 60′, erano i nerazzurri di Brera. Dalle origini “milanesi” fino a Busto Arsizio in provincia di Varese, in Serie C. Terra del capolinea, ma anche inizio di un nuovo percorso: quello da allenatore. Un viaggio terminato, ma tutto da raccontare.
Nato a Milano nel 1940 e cresciuto nel settore giovanile nerazzurro. 109 partite dal 1956 al 1963. Bruno Bolchi ha rappresentato la storia dell’Inter. Ha fatto parte di un capitolo antico, ma mai dimenticato. Ha vinto la Serie A nella stagione 62/63 e poi anche la Coppa dei Campioni nel 63/64. L’esordio arrivò a 18 anni, a 21 era già il capitano della Milano nerazzurra. A rappresentare un popolo. Difficile? Sì, ma non per uno come lui. “In un centrocampo di campioni dovevo correre un po’ per tutti“, aveva ammesso in un’intervista al Corriere della Sera. E poi quel soprannome, “Maciste”.
Glielo diede l’indimenticato Gianni Brera. E lui, lo accetto con garbo. Poi se ne affezzionò: “Me lo sono portato appresso per tanto tempo, da quando avevo ventuno anni. Me lo diede Gianni Brera. Giocavo nell’Inter ed ero particolarmente prestante fisicamente. Alto 183 centimetri e pesavo 83 chili. Eravamo nel periodo del post seconda guerra mondiale, io ero un’eccezione tra i miei coetanei molto più esili. Sono stato Maciste per tutta la vita, e non mi ha mai dato fastidio”.
Non solo la maglia dell’Inter. Bruno Bolchi è stato anche calciatore di Verona, Atalanta e Torino in Serie A. Poi la Pro Patria in Serie C. La terra del tramonto e, allo stesso tempo, di una nuova alba. Nella stagione 1970-71 vive la sua ultima pagina da giocatore professionista, poi inizia l’avventura da allenatore, sempre sulla panchina biancoblù. L’inizio di una carriera importante con 6 promozioni in bacheca, di cui 4 dalla Serie B alla Serie A. E poi quel doppio salto con il Bari, con cui vinse prima la Serie C nel 1983/1984 e poi la B un anno dopo. Un doppio salto che solo un uomo del suo spessore sarebbe capace di compiere. Nella valigia di ricordi, anche le vittorie con Cesena (1986/1987), Lecce (1992/1993) e Reggina (1998/1999). Poi anche con la Pistoiese, dalla Serie C alla B. Correva l’anno 1976/1977. “L’uomo giusto, nel posto giusto e al momento giusto”, avrebbe detto di lui Gabriele Martino, direttore dei granata nell’ultimo anno prima del nuovo secolo. Tutti si rircordano di lui. Un uomo concreto, leale.
Tante vittorie, tante promozioni. Una pellicola di successi. Sempre con il volto pacato che lo ha sempre contraddistinto. Mai una parola fuori posto. Il calcio, per lui, è una scienza semplice: “È come la gonna. Un anno viene la moda di portarla lunga sin quasi ai piedi, ma quello dopo torna in auge la minigonna. Sorrido quando sento parlare qualcuno, che crede di aver inventato chissà che cosa. Si tratta di mettere un giocatore un po’ più avanti o un po’ più indietro, ma per il resto il calcio è sempre lo stesso”. Bolchi e è stato il “mito greco” del nostro calcio. Volenteroso e forte. Personaggio del suo personalissimo film. Un film durato 82 anni. Ora cala il sipario. Un silenzio assordante, ma un ricordo eterno.
A cura di Manuele Nasca
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