Ezio Capuano a 360º. Dal suo modo di essere a quello di vivere il calcio, poi le esperienze vissute sino a parlare del “suo” Taranto. In una lunga intervista al Corriere dello Sport, l’allenatore si è raccontato, con il suo solito modo di fare: “Prima di ogni partita non so se ne uscirò vivo o morto”.
La popolarità sui social di Capuano è fuori dal comune. Fa sempre notizia qualcosa che lo riguarda e lui a tal proposito risponde così: “Succede per il mio modo di essere. Questa figura di personaggio mediatico non mi ha agevolato ma sono fiero di me stesso. Mi sono fatto una bella famiglia, ho guadagnato e, soprattutto, ho fatto quello che volevo. L’ho fatto assecondando quella che è una vocazione, in quanto fare l’allenatore è come voler fare il prete“. Su di lui c’è anche una pagina su Facebook su cui si ironizza a proposito dell’allenatore campano, il quale si è così esposto: “Ne sono a conoscenza e conosco anche l’amministratore ma io non sono sui social. Non mi interessano i clic. Io voglio altro. La mia vittoria più bella – ha aggiunto – è stata andare al reparto oncologico infantile di Taranto. Sono uscito di là con le lacrime ed ho chiesto di mandare la maglia numero 10 al primario. Lui è il vero fenomeno. Poi la sera ho portato la squadra ad un quartiere di Taranto che ho particolarmente a cuore: il Paolo VI. Il calcio è aggregazione“.
Ma come affronta il calcio Ezio Capuano? “Sono un tipo coraggioso. Il coraggio non è altro che l’elemento che convive con la paura e da essa non bisogna farsi attanagliare. Per me – ha proseguito – il calcio è attesa. L’attesa di cui parlava Leopardi. Lo vivo nella sofferenza. Se sto vincendo tremo, ho l’incubo del pareggio. Prima di ogni partita dico ai ragazzi di essere in sala rianimazione. Loro ci scherzano su ma io davvero non so se ne esco vivo o morto“. Alla domanda “se dovessi rinascere rifarebbe Eziolino Capuano” risponde, invece, così: “Alcune volte no. Ci sono delle cose per cui mi vergogno. Rivedo scene del passato. Penso a Mazzone e lo cito: sembro il fratello scemo. Quello però è l’istinto, ora ho esperienza e gestisco le cose in modo differente. Se rinascessi di certo non farei neppure il politico. Ho fatto troppe ca… Sono consapevole che se fossi stato diverso sarei in Serie A ma a me sta bene così. Mi piaccio moltissimo per quello che sono“.
Su Capuano si sono espressi in modo estremamente positivo sia Massimilano Allegri che Josè Mourinho, sui quali l’allenatore del Taranto ha detto: “Io amo le persone che mi arricchiscono. Loro sono due mostri sacri dell’intelligenza umana. Max lo conosco da quando giocava con Camplone: con Mou il primo contatto ci fu ad Appiano nell’anno del triplete. Josè andrebbe clonato, è il più intelligente al mondo. Sono anche amico di Antonio Conte e a Roberto De Zerbi voglio bene come un figlio“. Sul suo modo di giocare, invece, si è così esposto: “Mi danno del difensivista da sempre ma il mio calcio è equilibrato e sfido chiunque a dire che io non voglia la riaggressione immediata. Poi vengono fuori con l’autobus, il pullman, la Croce Rossa dinanzi all’area. Tutte cavolate. C’è questa moda del tiki-taka, della costruzione dal basso, che in realtà è efficace solo nel 6,88% dei casi. Nel 93,12% ti fa rubare la palla. Per rompere le due catene in opposizione hai meno del 7% di possibilità. Tuttavia – ha ulteriormente affermato – se non ci provi sei superato, sei antico. Come dice Allegri: il calcio è semplice. Pensate lui è uno dei più vincenti e qualcuno si permette di contestarlo“.
Qual è, quindi, la ricetta di Ezio Capuano per fare l’allenatore? “Devi essere come un bravo chef. Io non ho mai avuto top club ma li ho trasformati in grandi squadre. Essere allenatore non è semplice. Devi gestire trenta elementi e devi essere autoritario, nonché credibile. Altrimenti ti danno del fallito“. Questo il suo credo e lo sta rispettando alla perfezione anche nella “sua” Taranto: “Ho rivoluto questa piazza. Arrivai con Pieroni, venivo da campionati vinti ad Altamura con la Cavese e con il miracolo Puteolana. Mi mandarono via quando ero a un punto dall’Ascoli, ero un ragazzino di poco più di 30 anni. Quando Giove mi ha chiamato mi sentivo dire: ma dove vai? Io però sapevo di dover riconquistare qualcosa che mi era stato scippato. E ci sono riuscito. Ho fatto riacquistare a questo bellissimo popolo il senso di appartenenza. Alla prima con me in panchina erano in trecento. All’esordio col Foggia, quest’anno, in tredicimila“. Infine, sugli obiettivi: “Il programma è triennale, cerchiamo di arrivare ai play-off. Abbiamo giocato a porte chiuse, in campo neutro e ogni quattro giorni: i nostri 33 punti valgono di più. Non ci poniamo limiti. La Serie B? Non ci penso. Il calcio è bello ovunque. C’è gente che in B c’è stata, di passaggio, e ora vende le pizze“.
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