“Ehi, aspetta! Specifica: l’unico che deve qualcosa a quei ragazzi sono io”. La premura di far conoscere la (sua) verità. Quella che scorre fluida, chiara e definita. Visibile e palpabile. Un tiro di sigaretta ogni tanto per stemperare quella piacevole tensione nel parlare e raccontare il coinvolgimento personale in quella che, forse, è più di un’esperienza professionale. La ricerca costante di un concetto che racchiuda la passione verso il suo ruolo e la riconoscenza per chi lo rende possibile e gratificante. C’è tutto questo negli occhi, nelle movenze e nelle parole di Domenico Toscano, allenatore del Cesena. “Vedi, le soddisfazioni di chi fa il mio mestiere non sono le vittorie. Trofei e record non sono nulla se poi te ne vai senza aver lasciato qualcosa. Così è come non esserci mai stati”. L’ambizione che non si ricordi il ‘chi’, ma il ‘come’ si passa da certi luoghi.
L’importanza degli incontri. Delle esperienze vissute; gioie e delusioni solo come sfondo di un dipinto più ampio. Il Cesena di Toscano. Un progetto che diventa un obiettivo. Eretto sulla frenesia di raggiungerlo, ma vivendo l’attesa. Inventare, provare e progredire: “Il mio obiettivo, fin dall’inizio, era dare tutto a questa città, a questa squadra, a questa società. Tutto me stesso per creare qualcosa di concreto che si potesse toccare con mano. Regalare a questa piazza quello che merita”. Un traguardo con alle spalle un percorso lungo. Cominciato nella morsa di dubbi e incognite, ma oltremodo stimolanti. La piena presa d’atto del significato dell’essere lì. “La delusione dell’anno scorso (leggasi eliminazione ai playoff) mi ha messo di fronte a momenti di riflessione personale. Mi ha portato a pensare di più, a farmi più domande. Volevo capire se con quello che avevamo fatto sino a lì potessimo costruire qualcosa di ancora più importante”. Crederci: l’insegnamento della Romagna all’allenatore calabrese.
“Il periodo che stiamo vivendo, il campionato che stiamo facendo seguono un percorso intrapreso alla fine della stagione scorsa. La nostra idea, condivisa con tutte le componenti, era arrivare a creare qualcosa di concreto a prescindere dai risultati”. Lo stare insieme il cardine della ricerca di un’identità. “Quello che più mi soddisfa e che ritengo essenziale è la crescita costante del gruppo. Dal punto di vista tecnico quanto umano. Lo dimostra il desiderio che hanno i ragazzi di migliorare. La nostra forza è il collettivo. I giocatori ci hanno lavorato ogni giorno e a rendere speciale questo clima è che nei loro occhi percepisci la voglia di continuare così”. Un calcio fatto di sentimenti. Collanti fra una città coinvolta che si accorge di tutto questo e una squadra carica di sogni che gioca a calcio con il piacere di farlo per gli altri. “Allenare a Cesena non porta pressione. Ho lavorato in altre realtà dove quella pressione l’avvertivi molto e poteva anche condizionarti. Qui è diverso”.
Un ambiente capace di risaltare la bellezza del fare ciò che ama. “Qui regna un sentimento di responsabilità. Responsabilità verso la città. Nei confronti di un tifo che in pochi contesti – almeno nella mia carriera – ho incontrato. La responsabilità che ti mette addosso la passione di questa gente è lo stimolo ulteriore che rende tutto più semplice”. Lo stadio sempre gremito, le trasferte seguite e vissute. Il calore percepito nell’arco dell’intera settimana. Questo è vivere Cesena: “A prescindere dal derby, a Rimini è stato qualcosa di bellissimo. Il riconoscimento dei tifosi verso la squadra: il calcio è fatto di giocatori e tifosi. Senza non esisterebbe. Donare soddisfazioni ai propri sostenitori, far sì che si sentano orgogliosi di quanto fatto dai loro beniamini è il massimo che chi fa il mio mestiere possa avere. Se poi ci aggiungi il percorso che stiamo facendo…”. Silenzio…
Un calcio fatto di uomini. Cuori e teste prestate al gesto tecnico. L’atto di riconoscere il confine tra l’io, il noi e il loro. “Come allenatore non devo ricevere nulla. Devo solo dare. Dare il meglio di me stesso perché Cesena lo esige. Il mio compito è trasmettere questa concezione del lavoro ai miei ragazzi. Perché, poi, i tifosi è nei calciatori che vogliono e devono immedesimarsi”. Una partita, quella giocata al Romeo Neri, che riassume tutto questo. Un frame avvolto da un coro e materializzato in un abbraccio: “In due anni qui quella è stata la prima volta che la gente ha invocato il mio nome alla fine della partita. Ma non è per questo che ricorderò quel momento e che mi commuovo a ripensarci: quel fatto è la dimostrazione di quanto e cosa stia dando il gruppo”.
Il Cesena di Toscano sta registrando e battendo record su record: dai gol segnati, alla porta spesso blindata fino alla lunga striscia di vittorie consecutive. “L’essere accostato ad allenatori che qui hanno fatto la storia come Bisoli o Castori è motivo di orgoglio, ma il messaggio che deve passare è che tutto questo è frutto solo di quello che stanno facendo i calciatori”. Professionalità e umanità che si intrecciano. Mentalità, storie e vicende diverse convogliate nella stessa strada. Interrotta sul più bello, ma riparata e ripresa senza cercare alternative. “Nella passata stagione avevamo creato uno zoccolo duro importante. Con una mentalità solida che quest’anno abbiamo voluto mantenere con la convinzione e la necessità di migliorarlo. Bisognava solo capire quale fosse la direzione da prendere. L’abbiamo trovata”.
Attenzione al dettaglio sì, ma senza forzare. Il tempo come unico alleato. “Abbiamo capito dove avremmo dovuto lavorare per coprire le falle dell’anno passato. Abbiamo curato ogni aspetto di ogni singolo giocatore. Dalle componenti essenziali ai dettagli più sottili”. La ratio delle scelte: “Vedi, l’anno scorso c’era troppa attenzione al risultato e una minor concentrazione sul ‘migliorabile’. È stata mia premura modificare questo approccio. Anche quando si è vinto con punteggi corposi – quest’anno – c’era sempre quel quarto d’ora rivedibile. Era da quel breve intervallo che io e il mio staff avremmo preparato la gara successiva. Solo così potevamo ambire alla crescita. Piano piano è divenuta una costante anche nei giocatori”. Metodi di lavoro permessi dallo spessore dei protagonisti. Quel tenero e sentito ‘ragazzi’ che prevale sempre sul banale ‘calciatori’ o ‘giocatori’. “Ho la fortuna di avere con me ragazzi come Simone (Corazza n.d.r.) e ‘Ciccio’ (De Rose n.d.r) che mi conoscono da molti anni. So cosa possono darmi. Sanno cosa cerco in loro. Sanno che io ci sono per loro come loro per me”.
L’assimilazione dell’esperienza. “Anche io sono cambiato. Sono diverso da quello di Terni, Reggio Calabria o Novara. Vedo tutto in maniera più riflessiva; sono meno istintivo. Cerco di dare sempre strumenti nuovi alla mia squadra”. Il contesto favorevole, una fertilità sulla quale fare affidamento per innestare qualcosa di concreto. Anche osando, ma con rispetto. “Quello che dico per Corazza e De Rose è quello che si è creato nei confronti di tutta la squadra. Ho voluto e desiderato prendermi cura di tutti perché era l’unico metodo affinché si creasse fiducia reciproca. La dedizione che io cerco di trasmettere è quella che oggi portano in campo”. Persone prima che giocatori; belle da vivere. “Ciccio’ ha 37 anni? Sì, ma quello che porta la fascia da capitano del Cesena non è quello che avevo al Cosenza o alla Reggina. Quindi, se io allenatore metto a disposizione dei giocatori gli strumenti giusti, li sprono a non fermarsi davanti a quelli che credono siano loro limiti loro lo capiscono”.
L’emozione leggibile nel luccicare degli occhi e quell’esclamazione di sincerità e totale immedesimazione: “Guarda, a parlare di questi ragazzi mi vengono i brividi”. La potenza di uno sguardo e il silenzio eloquente: “Oggi questa voglia di migliorarsi, di crescere assieme la vedi, la senti. E io non posso che ripagarli riponendo in ciascuno di loro immensa fiducia. Il mercato di gennaio l’ha dimostrato no?”. Essere allenatore secondo Toscano. Valori e segreti custoditi come in un quadro di famiglia. A tinte bianconere. “Dopo una partita arrivano al campo di allenamento sempre con la stessa grinta e determinazione. Come se tutti dovessero giocare la domenica successiva. Se hanno fatto anche un solo minuto sotto ritmo vogliono recuperare. Hanno fatto loro il mio modo di pensare, di vivere il calcio: il mio spirito. E questo è ciò che più mi appaga”.
Allenare o allevare. “Vedere dei giovani del vivaio del Cesena che hanno sempre sognato di giocare nel loro ‘Dino Manuzzi’; capire che in loro freme il desiderio di non deludere è bellissimo. Sono nostri giovani e questo è quello conta. Sono ragazzi che ci hanno creduto perché volevano arrivare qui”. Toscano arriva anche dove il rischio potrebbe farlo da padrone: “La soddisfazione puoi leggerla nei loro sorrisi. E questo lo percepiscono anche i grandi. Sono sensazioni che cambiano gli equilibri e sulle quali fare affidamento”. Berti, Francesconi, Pieraccini, David, Shpendi o Giovannini, una carta di identità che certifica, un pallone che racconta. “Io non li chiamo neanche più ‘giovani’. Se giocano nel mio Cesena e in Serie C è perché sono pronti”. Lasciarsi andare alla soddisfazione, un istante goliardico a simbolo di un fotofinish cercato e raggiunto: “Quando i ‘vecchietti’ fanno il torello prima dell’inizio dell’allenamento e i ‘piccoli’ rimangono in disparte quasi costretti da un timore reverenziale nei confronti degli altri io mi arrabbio. No! Devono buttarsi per esaudire il loro sogno”.
Se le urla, l’incitamento, la passione viscerale dell’allenatore non bastasse: “Prendi Sinner. È un fenomeno da studiare e lo sto facendo. In due anni ha avuto una crescita mentale spaventosa. Se questi giovanissimi seguono modelli così hanno la strada spianata”. Settore giovanile, Cesena e una concezione del calcio proiettata verso lidi tutti da scoprire. “Oggi non si può prescindere dai settori giovanili. I giovani sono la linfa del calcio moderno (LEGGI QUI). Sotto tutti i punti di vista: finanziario, tecnico, tattico, di sostenibilità. Certo, vanno coltivati, aspettati, supportati e sopportati, devi accompagnarli negli errori, ma è essenziale. Cesena in questo ha molto da insegnare”.
La soddisfazione di chi ottiene quello che cerca: lasciare qualcosa. “Oggi basta un cenno per capirsi. Qualcuno deve alzare i ritmi? Lo guardo e capisce. Si è creata una sinergia e una unione di intenti che per un allenatore non vede vittoria che tenga il paragone”. Strategia vincente? La classifica parla, ma Toscano non vuole ascoltare. “Quando insisto sul guardare i numeri solo alla fine è per proteggere i miei ragazzi. L’entusiasmo della vittoria, il primato, il segnare con facilità ecc. non significano nulla. Anzi potrebbero giocare brutti scherzi. La gestione dell’adrenalina dei successi è fondamentale. E l’aspetto della crescita risiede proprio lì: nel non farti trascinare”. Vivere un mestiere come una missione. Trasmettere una passione e delle idee come obiettivo. La realizzazione degli altri per sentirsi appagati. La fiducia reciproca come stella polare di un viaggio del quale non conosce la meta perché solo così si gode del ‘bello’ del percorso. “Voglio lasciare a questi ragazzi e a questa città quello che loro stanno dando a me: forza e voglia di migliorarsi sempre”. Domenico Toscano ringrazia Cesena: una città, un popolo, una squadra capaci di trasformare il lavoro in emozioni: “Grazie RAGAZZI!”.
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