Il calcio è quel gioco in cui il rapporto tra tifoso e giocatore rappresenta il 90% della prestazione in campo. Un concetto che viene portato ai massimi livelli in quel di Roma. E oltrepassare quella sottile linea, passando da tifoso a giocatore, può rivelarsi la cosa più bella del mondo, o quella che ti condiziona negativamente. Lo sa bene Antonio Di Carlo, centrocampista della Roma di Eriksson e in Serie C con Piacenza e Carrarese (squadra con cui ha vinto anche una Coppa Italia Serie C). L’ex giallorosso si è raccontato ai microfoni della Casa di C.
Inutile dire che a Roma il calcio lo si vive in tutt’altra maniera. Ma può provocare una pressione tale da renderti la vita difficile. “Per un romano come me, giocare con la Roma è stato un onore del quale andrò fiero per tutta la vita. Ma non sono mai sceso in campo a cuor leggero. Per un tifoso come me della “maggica”, passare dagli spalti al campo, è stata un’emozione talmente grande che non sono riuscito mai a gestire totalmente. Il rendimento in campo non è mai stato quello che avrei realmente potuto offrire”. Un amore che però è rimasto incondizionato per tutto il tempo che ha indossato quella maglia ed oltre. “Ho la coscienza pulita comunque. Per la squadra giallorossa mi sono sempre adattato, proprio per l’amore che riversavo nei confronti di quella maglia e per il valore che aveva per me. Ero consapevole che rappresentavo una parte del popolo romano”.
Non ci mise tanto Di Carlo a farsi conoscere anche in tutta Italia: il 9 settembre 1984 segnò il suo primo gol con la Roma nel derby di Coppa Italia contro la Lazio. Oltre all’importanza, la bellezza del rete è rimasta negli occhi dei tifosi giallorossi. Il giovane centrocampista fece partire dai 35 metri un pallone che si incastra nel “sette” della porta difesa da Nando Orsi. E quando quelle emozioni riaffiorano, il dialetto romano si fa sentire. “Lassa perde, che te devo di’ [“lascia perdere, che ti devo dire”, in romano], impossibile descrivere ciò che ho provato. Una delle più grandi gioie che un romano di Roma può vivere”.
Un percorso che però ha visto anche qualche ostacolo. Perché per un giocatore, ma prima di tutto un tifoso giallorosso, vivere il dramma in prima persona di Roma-Lecce è stato un trauma. A distanza di 40 anni dalla stagione 1985/1986 brucia ancora. “Ne hanno dette veramente di ogni su quella gara. Ma ti pare che dopo l’enorme fatica che abbiamo fatto, buttavamo volontariamente tutto all’aria e di fronte alla nostra gente? C’erano 70000 persone all’Olimpico!“. La città era in visibilio per quel recupero inaspettato sulla Juventus di Platini. “Avevamo compiuto una rimonta epica annullando il gap di 7 punti che avevamo a fine girone d’andata [negli anni 80’ la vittoria valeva 2 punti n.d.r.]. Eravamo una delle squadre più competitive che il presidente Viola avesse costruito. Ci ha condannato un pessimo avvio di stagione, dove abbiamo lasciato punti per strada ovunque”.
La svolta è arrivata troppo tardi, ma, nonostante la delusione finale, quell’impresa rimane nella storia. “Nel girone di ritorno invece, le chiavi di volta sono state l’immeritata sconfitta di Verona e il turbolento pari di Firenze. In entrambe le partite meritavamo di più. Se aggiungevi questi 3 punti, anche se perdevamo con il Lecce, ci contendevamo ancora lo scudetto con la Juve“. Ma la condanna definitiva è arrivata in quel 20 aprile 1986. “Poi quella domenica mentalmente siamo stati superficiali, quella è la veritiera spiegazione. Pensavamo di fare un boccone degli avversari dopo il vantaggio di Ciccio Graziani. Invece i pugliesi ci hanno rimontato e alla fine è terminata 2-3 per loro ed abbiamo perso lo scudetto. Per noi è stato uno shock. In spogliatoio a fine gara e tutt’intorno all’Olimpico c’era un silenzio spaventoso”. Una delusione che difficilmente i romanisti dimenticheranno. Come l’impegno che Di Carlo e i suoi compagni misero in quella seconda parte di campionato.
A cura di Stene Ali
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