“Mi chiamo Artem, e Marco e Giulia sono mio padre e mia madre”
Ero ancora un bambino quando ho sentito per la prima volta lo scoppio di una bomba. O almeno credo fosse quello. Tra il suono di un missile che tocca il suolo e il deflagrare di una bomba onestamente non ho mai saputo quale sia la differenza. Entrambe spaventano. Fanno paura. Intimoriscono. Ti senti inerme perché sai che per quanto tu possa impegnarti, se vuole ( e voleva, credetemi ) una bomba può colpirti ovunque, anche nel posto più sicuro del mondo.
Quel posto io l’ho sempre chiamato casa, e non potevo immaginare che di quel luogo sarebbe rimasto poco e nulla. Compreso chi vi abitava. Mi chiamo Artem, ho 20 anni, e da otto la mia nuova casa si chiama Italia. Artem come Artem Bobukh, in Ucraina una vera e propria celebrità per tutti gli amanti del football. E mio padre era uno di quelli, e decise di omaggiarlo chiamando l’unico figlio maschio della famiglia come lui. Solo da poco ho scoperto che Artem significa “illeso”, è di origine greca. Strano vero? Forse il destino, chissà. E illeso lo sono stato per davvero. O quasi. Anzi, aggiungerei miracolato. Perché quando un missile distrugge la tua casa e solo tu ne esci vivo, non può essere altrimenti. I problemi arrivano quando apri gli occhi. Quando le orecchie ancora fischiano per via del rumore assordante, lo stesso causato da un qualcosa che in pochi secondi si è portato via tutto. Intorno solo macerie. Quella che una volta era la tua TV ora è solo un cumulo di vetri sparsi in giro. Parti del soffitto cadevano ancora in terra. Ricordo che mia madre era poco distante da me. A pancia in giù, la stessa posizione di quando dormiva. Avevo dolore al braccio. Nulla di insopportabile. Mi alzai per scuoterla. Non ebbi nessuna risposta al mio chiedere incessante: “Mamma, sono Artem. Ti svegli?”. Aveva in una mano ancora il piatto di pasta che stava per servire, o almeno quello che ne restava. “Papà, dove sei?”, chiesi tre volte invano. Poi lo vidi. A terra. Ricoperto di calcinacci. L’ultima cosa che ricordo è un’immagine che ho stampata in testa da quel giorno. Lui con in braccio mia sorella più piccola, Yulia. Cercava di imboccarla quando entrai in cucina. Un minuto dopo non c’era più nulla. Mia madre, mio padre con Yulia tra le sua braccia e le mie altre due sorelle, Aleksandra e Anastasia. Loro non le ho mai più viste. Troppe le macerie. Poca la forza per cercarle. Mio padre si chiamava Valerii, mia madre Oksana. E pure ci avevano detto di stare tranquilli: “Restate nelle vostre case e non abbiate paura”. La mia casa è diventata la tomba della mia famiglia.
Non ricordo più nulla. Il 27 febbraio è stata l’ultima volta in cui ho visto tutta la mia famiglia. Mi sono risvegliato in quello che all’apparenza sembrava un ospedale, ma che in realtà era tutt’altro. In quel periodo le metropolitane rappresentavano un posto sicuro. Sottoterra le bombe non possono far male. Qualche barella vero, qualche medicina ma nulla di più. Io ero steso su una di quelle. Sapevo benissimo cosa era successo, ma a chiunque mi chiedeva spiegazioni rispondevo di non volerne parlare. Raccontare ciò che era ovvio per tutti la trovavo una sciocchezza, nonostante i miei dieci anni. Ero lì perché la guerra aveva voluto così. Perché qualcosa di più grande di me si era portato via tutto. Perché per quanto volessi, quell’attimo sfuggiva al mio controllo. Settimane, mesi e poi anni. Il mio soggiorno forzato, ma doveroso. Oggi giorno la stessa cosa: morte e paura. Paura e morte. Un giorno scambiavi due chiacchiere con chi nemmeno conoscevi 24 ore prima, il giorno dopo vedevi il suo corpo accatastato in un angolo con tutti gli altri con ferite tali da non riuscire a sopravvivere. Potevo decidere di uscire fuori, vero, dato che nessuno mi obbligava a restare lì. Il timore però di beccarsi una pallottola mi ha sempre fatto desistere. Capitemi, avevo solo 10 anni. Sapevo però che fuori qualcuno pensava a noi. Piccole associazioni indipendenti si occupavano di procurarci cibo e acqua. A turno si usciva fuori per ritirare tutto. Pochi metri da percorrere. Testa in giù e pedalare. Un giorno ricordo che “ricostruimmo” sui binari della metropolitana il percorso da fare e cronometrammo il tutto per capire chi potesse essere il più veloce. Risultai tra i primi, ma nessuno mi permise mai di svolgere questa mansione. “Sei troppo piccolo, tu sei il futuro di questa terra” mi veniva sempre detto. Quando, e se, tutto quello sarebbe finito.
Quasi due anni dopo le notizie che arrivavano da fuori iniziarono a infondere un po’ di speranza. Si parlava di una Russia pronta a concedere la tregua, di un’Ucraina che aveva resistito fino alla fine pur di garantire un futuro alla nazione. Il ricordo della liberazione è limpidissimo in me. Un gruppo di soldati, credo fossero cinque, si fece spazio con il nostro aiuto nella piccola fortezza che avevamo messo su a dieci metri di profondità. A quella metro ci eravamo abituati un po’ tutti, ma lasciarla era il nostro e unico obiettivo da sempre. Ci diedero subito qualcosa da mangiare, anche se a dire il vero il cibo non era mai mancato. “Mi chiamo Artem” risposi a un soldato alla domanda di come mi chiamassi, prima che un altro col sorriso sul viso mi dicesse: “Pronto a una nuova vita?”. Parole che sapevano di libertà, ma con il retrogusto amaro di una vita senza le persone che più amavo e in un mondo che non riconoscevo più. Con due compleanni festeggiati sottoterra, mi ritrovavo senza nulla. E senza nessuno. Agli appelli che si facevano in piazza, i nomi dei miei genitori e delle mie sorelle furono subito depennati. Nessuno rispose mai “presente”. Un mio zio, Lukas, l’unico ancora in vita di tutta la mia famiglia a stento mi riconobbe quando per la prima volta, dopo due anni, i nostri sguardi si incrociarono nei tanti punti di ritrovo. La guerra era finita da poche ore. Si avvicinò piano, come se avesse paura che io potessi scappare. Come si fa con un cagnolino per strada: bisogna prima acquistare la sua fiducia. A un metro circa da me si inginocchiò e iniziò a piangere. Mi prese le mani e mi portò a sé. “Finalmente è finito tutto”, mi sussurrò in un orecchio.
Ci sedemmo su quella che somigliava a una panchina. Iniziammo a parlare. Mia zia non c’era più, così come le due mie cugine. Anche lui era rimasto solo. Solo e senza nulla a cui potersi aggrappare. Mi disse subito che dovevamo andare via da lì, che nonostante fosse tutto finito quello restava un posto non sicuro, soprattutto per un bambino di dodici anni che aveva perso tutto. Mi parlò subito dell’Italia. Mi spiegò come fosse possibile raggiungerla. “Aiuti umanitari, Artem. Sei ancora in tempo per ricostruire la tua esistenza lontano da cadaveri e macerie“. Mi presi qualche minuto per pensare, accettai con qualche riserva pur sapendo che forse quella era la decisione migliore per il mio futuro. Partii qualche giorno dopo, trascorrendo le ultime ore in Ucraina seguendo quello che per me era diventato una sorta di rito. Al mattino e nel primo pomeriggio mi recavo sempre all’esterno di quella che una volta era casa mia. Il cumulo di macerie era lo stesso di due anni prima. Mio zio mi disse che i corpi di tutti venivano seppelliti in fosse comuni, e che non tutti avevano un nome e un cognome. Feci visita a questo luogo il giorno prima della mia partenza. Un campo enorme, quasi non si vedeva la fine. Terreno dismesso qua e là. Piccole croci conficcate a terra e qualche fiore. Lì c’era tutta la mia famiglia. Salutai scegliendo un posto a caso di quel terreno. Baciai a terra, incamminandomi e lasciandomi tutto alle spalle.
Arrivato in Italia fui affidato a una famiglia del sud residente a Milano praticamente da sempre. In quel tempo, data l’eccezionalità del caso, tutte le tempistiche bibliche della legge italiana divennero di gran lunga più flessibili. C’era la possibilità infatti, per tutte le famiglie che avevano aderito a questo progetto, di accogliere in casa propria un rifugiato, grazie anche all’aiuto economico dello Stato. Chi lo faceva si impegnava a garantire un futuro a chi un futuro non lo aveva, ecco perché ho sempre pensato che Marco e Giulia avessero le palle. Marco lavora in banca, Giulia si divide tra casa e il ristorante dei genitori dove si occupa di tanto in tanto di dare una mano in cucina. Marco e Giulia non sono sposati e non hanno figli. “Ciao, ci hanno detto che ti chiami Artem. Noi siamo Marco e Giulia, ci farebbe piacere portarti a casa da noi e passare un po’ di tempo insieme“. Il tutto con l’aiuto di un App sul cellulare che traduceva le loro parole in ucraino. Furono queste le prime che Giulia mi disse, stringendo la mano di Marco. Ci incamminammo verso l’auto. Da dove eravamo in circa 20 minuti giungemmo a casa. Aperta la porta il grido “sorpresa” mi fece sobbalzare. Erano circa trenta persone. La famiglia di Marco e Giulia. Uno striscione con i colori dell’Ucraina e la scritta benvenuto. Fu lì che dopo circa due anni comparve un sorriso sul mio viso. La serata trascorse tranquilla tra una pizzetta e un’altra e io che iniziavo nuovamente a sentirmi come in famiglia. Andati via tutti mi mostrarono la mia stanza. Piccola ma bellissima. Alle pareti il giallo e l’azzurro. Una scrivania con su qualche fumetto e un letto con alcune coperte della Roma e l’immagine di Francesco Totti. “Artem io tifo Roma eh, ti ci dovrai abituare”, mi disse ridendo Marco. “Sai chi è lui?”, mi chiese. “Certo”, risposi, “è famoso anche in Ucraina”.
Nei giorni a seguire iniziai a prendere confidenza con l’ambiente e con loro. La cosa che mi sorprese è che nessuno dei due, né Marco né Giulia, mi chiedesse del mio passato, di quello che avevo vissuto. A loro interessava solo il presente, il mio presente. Dopo un anno in quella casa ero diventato parte della famiglia. La colazione insieme, io a scuola e loro a lavoro, la sera a cena rigorosamente con la televisione spenta per agevolare il dialogo erano ormai la mia routine preferita. A 14 anni, tre volte a settimana e con l’italiano che ormai padroneggiavo, giocavo a calcio in una squadra della periferia milanese. L’occasione giusta per continuare a farmi amici, oltre a quelli che a scuola lo erano già diventati. Un aspetto mi colpì su tutti: nessuno provava compassione per me e per quello che mi era successo. Per loro ero Artem, e non un bambino sfuggito alla guerra. Il calcio come veicolo per permettermi di integrarmi in un mondo per me nuovo. Non nego che in campo e tra i banchi di scuola momenti difficili ci siano stati. In campo poi, si sa, le parole volano. E il sentirmi dire, con modi tutt’altro che carini, di tornare nel mio paese di certo non è stato bello. Ma capita, non sempre do peso a tutto. A differenza del valore che do invece ai piccoli gesti, quelli della vita di tutti i giorni. A 20 anni, e da otto in Italia con la mia nuova famiglia, Marco e Giulia rappresentano coloro che mi hanno dato una seconda possibilità per vivere. “Mi chiamo Artem, e Marco e Giulia sono mio padre e mia madre”.
A cura di Carmine Rossi