Quando Kalifa Kujabi risponde al telefono si sta riposando. L’allenamento della mattina è terminato e lui è in casa insieme ai suoi bambini. La voce è tranquilla. Esatto, tranquilla. Le notti nel deserto e il viaggio nella stiva di un peschereccio sono ricordi sempre vivi ma ormai lontani. Lì il futuro era ancora incerto, la paura di non farcela prendeva prepotentemente il posto della serenità. Kalifa poi ci è riuscito, a costruirsi un futuro. In Sardegna, con la maglia della Torres. Come? Giocando a calcio. “Alla prima partita in Eccellenza pensai: “Ok, adesso posso iniziare a scrivere la mia storia”“. La storia di Kalifa Kujabi.
Un pallone e una partita che dura tutto il giorno. Il triplice fischio è la luce del tramonto. Il campo è in terra battuta ma poco importa. Così Kalifa Kujabi ha conosciuto il calcio in Gambia. E non lo ha più lasciato. “In Africa ci piace giocare a calcio in mezzo alla strada. I genitori non sono d’accordo dato che molti ragazzi non riescono ad avere successo, pensano subito a mandarli a scuola. Ho iniziato a giocare con le giovanili di una squadra di serie A gambiana”.
In pochi ce la fanno. In Gambia non c’è la guerra, ma la crisi e le condizioni di vita precarie si fanno sentire ogni giorno. Per molti quello di diventare un calciatore di alto livello rimane soltanto un sogno, un film in continua proiezione nella mente. Non per il fratello di Kujabi. Lui ha notato le sue potenzialità sul campo. Quel film vuole proiettarlo davvero. “Kalifa, per diventare un calciatore c’è una sola possibilità“. Si chiama Europa.
Da una parte avete un sogno. Dall’altra sedici anni, cinque paesi da attraversare in un anno di viaggio con tanto di deserto e una traversata in mare. Nel mezzo c’è la vostra vita. Una sola domanda pochi attimi prima della partenza rimbomba nella testa di Kalifa: ne vale la pena? “Prima di partire non ero consapevole del pericolo. Io avevo 16 anni, non pensavo che sarebbe stato così difficile. Ripensamenti? Sì, ne ho avuti. Pensai che rischiare la vita non ne valesse la pena. Guardando indietro oggi però dico che lo rifarei“.
Prima un pullman fino al Senegal, poi il Burkina Faso. Quindi il Niger. Il Niger e il deserto. “È la zona più pericolosa, si tratta di una settimana di viaggio nel cassone di un pick-up. Noi eravamo in ventisette. Dormivamo per terra, faceva un freddo pazzesco. Anche in quel momento ho avuto dei forti ripensamenti“.
Quando sei nel cassone di un pick-up nel mezzo del deserto il futuro è difficile da disegnare. Forse non esiste proprio. Ma Kalifa Kujabi aveva soltanto sedici anni. Era troppo giovane per rinunciare, voleva soltanto giocare a calcio. A costo della vita. Così arrivò in Libia. “Ho visto persone morire di fame nei campi in Libia. Una volta venni obbligato a lavorare a casa di un uomo. Suo fratello aveva un’arma. Alla fine del lavoro ordinò di metterci in fila, poi cominciò a giocare puntandoci il fucile. Sarebbe potuto scappare un colpo. Un amico mi disse: “Kalifa, se racconteremo quello che abbiamo visto qua le persone non ci crederanno“.
Era una sera di fine aprile quando il peschereccio che avrebbe portato Kalifa Kujabi in Italia arrivò sulla costa libica. La stiva della barca in legno oppresse lui e altre duecento persone in pochi metri quadri. “Chi aveva pagato di più stava all’esterno, gli altri venivano messi sottocoperta, dove stavano i pesci e il motore. Eravamo quasi 600 persone a bordo. C’era un odore terribile di benzina, l’acqua entrava e mancava l’aria. Stavamo malissimo. Un tizio voleva usare l’accendino per vedere meglio rischiando di dare fuoco a tutto. Alle cinque di mattina sentimmo delle urla: una nave tedesca ci salvò”.
“Io arrivai a Pozzallo, in Sicilia. Ero in un paese libero pieno di opportunità che io volevo sfruttare. Sapevo da dove venivo e la fortuna che avevo ad arrivare salvo”. L’Italia, un paio di scarpette e un futuro concreto. Kalifa Kujabi si spostò a Palermo. Nella casa accoglienza tutti avevano capito le sue qualità con la palla al piede. Poi arrivò la chiamata del Muravera, squadra di Eccellenza in Sardegna. “Vincemmo il campionato arrivando in Serie D. Alla prima partita pensai: “Ok, adesso posso iniziare a scrivere la mia storia””. Muravera significa rinascita. Il futuro esiste, davvero.
L’odore pungente della stiva del peschereccio aveva lasciato spazio a quello del campo. C’era lui e un pallone. Proprio come gli aveva detto il fratello in Gambia. E allora via, si gioca. Partita dopo partita. Kalifa Kujabi arrivò a stuzzicare l’interesse di Torino, Cagliari ed Empoli. Capitolo qualità: il fratello aveva ragione. “Poi sono andato alla Torres, abbiamo vinto i playoff arrivando in Serie C. C’era l’interesse di Torino, Cagliari ed Empoli. Sapere che squadre del genere stessero chiedendo il mio nome mi lasciava stupito“.
Il telefono squilla. Dall’altra parte della cornetta c’è Guido Angelozzi, direttore sportivo del Frosinone: “Kalifa, vieni a giocare qui?”
Un progetto per Kalifa Kujabi. Il ragazzo accetta e arriva nello spogliatoio di Grosso. Nasce un problema: un errore di battitura nel cognome ferma il tesseramento. Dopo tutto quello che ha passato, una H di troppo blocca il momento più bello del sogno. Sembra una barzelletta, ma così Kalifa non può giocare. “Al telefono Angelozzi mi disse che aveva un grande progetto per me, conosceva anche la mia storia. Voleva fare quello che ha fatto con Gatti. Grosso disse che aveva visto i miei video e che gli piacevo. Soltanto che avevano sbagliato a scrivere il cognome, misero una H in più. Per questo persi un anno. Venni tesserato nell’ultimo giorno disponibile. Successivamente Grosso scoprì la mia storia, rimase senza parole. Nel momento in cui venni tesserato era talmente felice che chiamò la sua famiglia e il migliore amico. Gli ho scritto quando ha lasciato il Frosinone“.
Poi, il giorno dell’esordio in Serie B. Quello per cui aveva dormito nel deserto rischiando la vita per un anno intero. “Aspettavo quel momento. Grosso mi disse: “Kalifa, vieni a fare una grande partita”. Fu bellissimo, giocai contro il Pisa in una partita molto intensa. Serie C? Di Francesco mi ha detto che devo fare la gavetta per crescere e mettere le partite nelle gambe. Mi ha chiesto di fare cinque gol come mezz’ala“. I gol, le emozioni, la promozione in Serie A. Era tutto vero. Sì, ne è valsa la pena.
E così il ritorno alla Torres. Con una promessa fatta a Di Francesco e un campionato per fare la gavetta a disposizione. La squadra sarda è partita forte: due partite, due vittorie. Prossima tappa? Il derby contro l’Olbia. “Abbiamo una rosa devastante. Con umiltà, sacrificio e la forza del gruppo possiamo fare un grande campionato. A Frosinone nessuno pensava che avremmo vinto la Serie B”.
Kalifa parlerebbe per ore. Viene interrotto soltanto dalla voce di sua figlia. “Arrivo, Fatima”. “Questo viaggio mi ha insegnato a essere paziente. Qui sono tranquillo, non mi sento in pericolo. Io adesso sogno di diventare un giocatore di alto livello, con delle presenze in Serie A“. Le notti nel deserto e il viaggio nella stiva di un peschereccio sono ricordi sempre vivi ma ormai lontani. Adesso il presente è sicuro, il futuro tutto da scrivere. E Kalifa Kujabi è tornato a sognare.
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