Scelte e famiglia, basi di una vita in ‘prospettiva’. Parigi: “Rimini, con te l’ultima pennellata”
Tra famiglia, Arezzo, formazione all’Atalanta, sentimenti, luci e ombre: la sincera intervista dell’attaccante del club romagnolo
Giornata libera. L’occasione per rilassarsi. Per mettere alle spalle tensioni e fatiche del week-end di lavoro appena terminato. “Eccomi. Scusa eh se non ti ho risposto subito, ma sono in macchina con la bimba e se non le metto le canzoni che le piacciono diventa matta (ride ndr.)”. Perché la vita è così: non smetterà mai di chiedere, ma nemmeno di dare. La semplicità, l’educazione e la sensibilità di Giacomo Parigi, attaccante 28enne del Rimini, ti abbracciano fin da subito. Quel “Shh” sibilato col dito indice fra naso e bocca è il dolce frammento di un dipinto ricco di luci, ombre e dettagli che aprono a una prospettiva nella quale perdersi fra le interpretazioni. “Matrimonio e nascita di mia figlia – dichiara Parigi – mi hanno cambiato la vita. Hanno aumentato gli stimoli e la voglia di migliorare giorno per giorno”. Il primo piano di un quadro realistico: “Ogni volta che scendo in campo sento qualcosa di più forte. Più intenso: non gioco più solo per me, ma per loro”.
Lampi di energie nuove scaturiti dalla consapevolezza: “Ormai ho quasi 300 presenze in Serie C, sono orgoglioso e soddisfatto di quello ho fatto, ma non mi pongo limiti”. Sincerità, spontaneità ed educazione: vivere (P)arigi: “Non è presunzione; in tanti anni di sacrifici per il calcio ho capito che il tempo per migliorare e superare i propri limiti non finisce mai”. Esperienze: le pennellate di Parigi. Ciò che c’è sempre stato la bozza decisiva dell’opera finale di Giacomo: “Ho sempre creduto che la famiglia sia l’elemento più importante per noi calciatori. Ogni anno rischi di cambiare città, squadra, compagni e abitudini. Parenti e amici di sempre sono le uniche certezze che hai. Devi percepire anche da lontano la loro vicinanza. Sono il motore del mio viaggio”.
Un viaggio a colori cominciato e continuato così. Lì dove l’aura di un maestro dell’arte come Piero della Francesca da rappresentazione della realtà con dovizia di particolari. Suscitando emozioni: “Quando penso ad Arezzo mi commuovo” – dichiara Giacomo. Ancora: “Se mi sono ritrovato a giocare nella prima squadra dell’Arezzo il merito è sempre della mia famiglia. Di mio padre perché fin da piccino mi ha coinvolto nella sua fortissima passione capendo quanto anche io amassi il calcio. E dal sedersi in Curva Sud al Comunale con lui a ritrovarsi in campo con la maglia amaranto sapendo che babbo, mamma e mia sorella erano sempre sugli spalti è un ricordo unico”.
Un pittore, come insegna l’artista di Sansepolcro, possiede una visione integrale del dipinto: le figure appaiono legate all’ambiente che le accoglie: “A dare la svolta alla mia carriera – confessa l’attaccante classe 1996 – sono stati i miei allenatori: Michele Bacis e Fabio Tocci (oggi allenatore in seconda di Greco alla Torres cfr.). Mi hanno spinto, hanno avuto il coraggio di farmi esordire nella prima squadra della mia città in Serie D e di questo gli sarò sempre grato. Per un aretino è il massimo”. Una sentenza: “Sia Serie B o dilettanti Arezzo vive per l’Arezzo”. La traccia del dipinto prende forma. “Passo dopo passo, capisci che sei sulla strada giusta. Il resto poi dipende da come ti poni. Io ho fatto le mie scelte e penso di averle azzeccate”.
Sensazioni e realtà a confronto: “Grazie Arezzo”
Scelte: sliding doors delle prospettive. “Dall’esordio con l’Arezzo mi sono messo in mostra e di lì a poco diverse squadre hanno iniziato a cercarmi. Milan, Roma e Atalanta su tutte”. Ordine, precisone e distacco sentimentale: l’arte rinascimentale descrive la maturazione di Giacomo: “Ho scelto l’Atalanta seguendo i consigli di Bacis che veniva da esperienze nel settore giovanile nerazzurro e del direttore della Juniores dell’Arezzo Angelo Alessandro”. Ricalcando i precisi contorni del disegno: “E anche per quel frangente ringrazio i miei genitori. Mi hanno appoggiato e permesso di decidere. Da padre ho capito quanto dev’essere stata dura per loro salutare il figlio giovanissimo per lasciarlo andare a oltre 400km di distanza”. Particolari: “Lasciare casa, non avere i genitori intorno, fare nuove conoscenze e dedicarmi al calcio a tempo pieno: a 16 anni mi dava libertà”. Sensazioni e realtà a confronto: “È bastato un anno a Bergamo per capire come stessero le cose. L’estate successiva già cominciavo a sentire la mancanza di casa, della famiglia, dei miei amici”.
Lotta con sé stessi. Latente, non la vedi, ma ferisce. Di quel colpo senti solo il dolore: “Sì, in certi momenti, pur trovandomi in un ambiente magnifico, dove avevo tutto quello che serviva a un ragazzo per crescere prima come uomo poi come calciatore ho pensato di mollare”. Solitudine: percezione dissolta dalla luminosità del tutto: “In quei momenti ho capito che fortuna avessi. I miei genitori, mia sorella e i miei attuali suoceri mi hanno aiutato tantissimo. Mi sono sempre stati vicini per superare le difficoltà”. Quando un ‘grazie’ non basta: “Nel match con la Torres erano tutti allo stadio. Babbo, al quale ho regalato l’abbonamento al Romeo Neri, mi ripeteva dalla sera prima che quel giorno avrei segnato e così è stato; quel gol era tutto suo. L’ultimo contro il Sestri Levante lo dedico alla nonna perché…” . Non tutto dev’essere esplicito nell’opera.
‘Bergamo val ben che una messa’ per Parigi
Lo sfondo, non un semplice dettaglio. “L’Atalanta è una scuola di vita. Lo staff ci seguiva sotto diversi aspetti: educativo, scolastico, relazionale. Impari a comportanti, ti insegnano le dinamiche dello stare insieme e convivere con le persone. Già dieci anni fa erano avanti, figurati oggi. E i risultati che hanno ottenuto sono la dimostrazione. Se ai ragazzi dai un indirizzo mentale costruttivo da seguire anche in campo renderanno di più”. L’insieme che funziona: “A Zingonia ho conosciuto allenatori preparatissimi che non ti fanno mancare nulla e strutture all’avanguardia dotate di tutti i confort. Da una squadra di Serie D mi sono ritrovato in un club di Serie A: è stato uno scossone”. Le prime sfumature sui volti: “Mi aggregarono agli Allievi, ma mi fecero subito allenare con la prima squadra. Mi sono ritrovato di fianco a giocatori come Denis, Maxi Moralez, e Pinilla che fino a due mesi prima vedevo solo in Tv”.
Intrecci: “Ho iniziato a fare l’attaccante per Didier Drogba, ma non avevo ancora conosciuto Denis (ride ndr)”. Esaltazione consapevole: “L’emozione era fortissima, ma dovevo gestirla. Per questi salti devi essere pronto: il rischio di bruciarti incombe. Al resto pensava l’Atalanta…”. Conoscere una Dea: “Non mi scorderò mai le belle parole e i consigli di Giulio Migliaccio e la vicinanza di Carlos Carmona”. Il resto è solo arte; da ammirare: “Beh…quello che facevano Papu Gomez, Germán Denis e Maxi Moralez era clamoroso. Quell’anno ottennero il primo record di punti in Serie A con Stefano Colantuono. Pazzesco”. Ecco, sì, Colantuono: “Alla fine di un allenamento, mentre mi dirigevo verso gli spogliatoi, mi chiama e mi dice di non tornare in convitto”. Esitazione. “Ero convocato per la partita col Sassuolo”. Il senso dell’opera: “Mi sono fermato un secondo, ho contato fino a cinque per capire come stessero le cose e niente…il giorno della gara non ci ho nemmeno fatto caso. Sacrifici, fatiche e sofferenze erano state ricompensate”. ‘Bergamo val ben che una messa’ – cit. Parigi…Giacomo.
“Rimini, con te per il mio sogno”
Un nuovo primo piano. “Sono convintissimo della mia scelta. Rimini ha una società seria, professionale e ambiziosa. La presentazione del nuovo centro sportivo della Gaiofana ne è dimostrazione. Abbiamo avuto difficoltà all’inizio, ma adesso stiamo raccogliendo quanto seminato. Io mi sento in fiducia. I gol per un attaccante sono iniezioni di motivazione”. Da rinunce e sacrifici nascono le soddisfazioni. “I primi anni mi innervosivo se non giocavo titolare e perdevo energie; entravo e in campo e non riuscivo a dare il massimo. Con l’esperienza ho capito quanto fosse controproducente. Un allenatore mi ripeteva sempre che non conta quanto, ma come giochi. Pochi minuti? Accetti, entri e sfrutti quelle frazioni per dimostrare quanto vali”. I messaggi veicolati dall’opera Rimini. “Da giovane non ci fai caso. Serve sbattere contro la realtà per capire dove stia la ragione. Con Buscè a maggior ragione: con lui impari ad andare oltre qualsiasi limite”.
Un dipinto quello griffato Giacomo Parigi che racconta un viaggio lungo, partito da casa e proseguito a Bergamo fino a Cosenza “dove ho capito di potercela fare”. Poi Agrigento, Francavilla, Picerno, Campobasso e “Arzignano che ringrazierò sempre perché mi ha consentito di arrivare in un club importante come Rimini” – dice. L’ultima pennellata: “Non diciamo nulla, ma io non mi fermerò. Ho ancora l’obiettivo del salto di categoria e continuerò a perseguirlo”. Come Piero della Francesca chiamato da Sigismondo Malatesta per affrescare il Tempio Malatestiano, Duomo dei riminesi e simbolo della città Giacomo Parigi sta disegnando un nuovo Rimini in cerca dei fasti di un tempo. Ma prima: “Vado a fare la spesa. È sempre noioso, ma fa parte del viaggio”. Che segue il corso delle responsabilità. Giacomo Parigi, il calcio e il Rimini: prospettiva di un’opera.