Dopo la stagione in prestito al Renate, Nicolò Squizzato ha detto addio all’Inter per passare al Pescara. Questa la sua intervista alla Casa di C dello scorso febbraio.
Tono calmo e pacato. Uno sguardo riflessivo, di quelli profondi capaci di nascondere sensibilità e razionalità. Siamo nella sede del Renate. Dopo l’allenamento è arrivato il numero 20 di Andrea Dossena, Niccolò Squizzato, centrocampista classe 2002. “È un giovane vecchio. Ha un’intelligenza rara per essere un calciatore. Un ragazzo perbene e serio”. Così ne parla Fabio, il team manager nerazzurro e attento conoscitore di talenti umani e calcistici. Contorni di un ragazzo che con un altro nerazzurro ci è cresciuto: “Sono arrivato all’Inter quando avevo 7 anni”. Quei colori non li ha più lasciati. “Nerazzurro lo sono diventato”. Il calcio di Eriksen e i derby contro il Milan. I ritratti di Conte e Dossena, due “martelli che ti obbligano ad andare sempre al massimo”. La magia della Nazionale e, sullo sfondo, il sogno di un San Siro vissuto da protagonista. Magari con la maglia della nerazzurra. Magari in finale di Champions. “Dipende solo da me. I giovani, se meritano, giocano”. Concetti chiari, come i suoi obiettivi. Nelle sue parole note di disciplina, mentalità e consapevolezza. È la storia di un bambino diventato grande con l’Inter. Dal nerazzurro al nerazzurro, il viaggio di Niccolò Squizzato.
38, i km che dividono Gallarate da San Siro. Da una parte, l’inizio del viaggio; dall’altra, il sogno da raggiungere. Nel mezzo la traiettoria di Squizzato. Anche se, il Niccolò bambino non voleva iniziare con il calcio. “Preferivo giocare in giardino. Il mio migliore amico è andato nella squadra del mio paese e l’ho seguito”. Pochi mesi e la Milano nerazzurra chiama. “C’è una squadra che vuole che vai ad allenarti”. È l’inizio della storia di Squizzato all’Inter. “Anche se da piccolo tifavo Milan. Poi sono diventato interista”. Una chiamata, quella rossonera, arrivata poco dopo: “Decisi di restare”. L’importanza di una maglia e di uno stemma compresa con il tempo. Anni in cui quello che prima aveva i soli tratti di un gioco inizia ad assumere i caratteri di un progetto per il proprio futuro. Responsabilità e prospettive che cambiano.
Uno dei turning point a 14 anni. “Firmai un contratto con la Nike, uno dei primi ragazzi della mia età”. Con un ricordo speciale: “Le prime Mercurial che mi mandarono”. Un percorso di crescita, quello di Niccolò. Perché giocare in un club come l’Inter è diverso. Lo è per storia, immagine, struttura, metodo. E restarci per così tanto, non è da tutti: “Non è stato facile. Soprattutto da piccolo aspettavi ogni estate la mail di conferma per l’anno successivo”. Nel mezzo aneddoti e immagini: “Giocavo con i due gemelli Moretti. L’allenatore li prendeva in giro dicendo che avevano i piedi storti. Il giorno del loro compleanno li portò delle scarpe della Nike… con dentro dei mattoni”. Un sorriso sul volto. Genuino.
12 le stagioni in nerazzurro: “Dedizione e lavoro, questi gli insegnamenti. A pensarci mi sento un privilegiato. Ogni ragazzo vorrebbe indossare quella maglia”. Pressioni? “Con gli anni rappresentare l’Inter è diventata la normalità”. Momenti difficili da affrontare: “Ho dovuto convivere con la pubalgia. A 17 anni sono riuscito a curarmi. Un problema fisico che mi è servito. Mi ha aiutato a conoscere meglio il mio corpo”. Crocevia importanti gli infortuni. Variabili che ti obbligano a fermarti. Ostacoli nel percorso che, a volte, fanno paura: “Non ho mai avuto il timore che la pubalgia potesse compromettere qualcosa”. Idee chiare. Fermarsi per ripartire. Ripartire nel proprio percorso. E Niccolò lo ha fatto subito. Superato l’infortunio, indimenticabili i ricordi con l’U17: “Dopo tre stagioni con i più grandi, tornai con i ragazzi della mia età con cui ero cresciuto. Vincemmo Scudetto e Supercoppa e diventai vice campione d’Europa con la Nazionale”. Rivalsa e orgoglio: “I trofei vinti sono stati per me una rivincita dopo le difficoltà per i problemi fisici. Una grande soddisfazione, la società ci teneva molto”.
Emozioni che sanno di rivalsa. La gioia per obiettivi conquistati con tenacia e volontà: “I primi mesi non giocavo per la pubalgia. Ripresi verso dicembre. Il ricordo più bello penso sia il mese a Dublino con la Nazionale”. Prima la paura: “Il mese precedente è stato duro. Con l’infortunio non ero sicuro di poter partecipare all’Europeo. Devo ringraziare il mister Nunziata per la vicinanza e il supporto”. Nella mente immagini felici: “Eravamo un grande gruppo”. Una maglia unica quella azzurra: “La prima chiamata in U14, per la pubalgia non sono potuto andare”. Un appuntamento rimandato: “La volta successiva è arrivato il gol nella prima partita contro la Romania”. Indelebile: “Che brividi durante l’inno”. Anni di esperienze e viaggi in giro per l’Italia e l’Europa: “Un’opportunità per crescere”. Tanti gli avversari affrontati: “Moukako il giocatore che più mi ha stupito”.
Quando si parla di Italia e dell’estero si pone sempre una questione: la fiducia nei giovani. Diverse le teorie e i punti di vista. Niccolò ha le idee sono chiare: “Il fatto che qui ci diano poco spazio non è poi così vero. Chi se lo è meritato ha sempre giocato”. Onestà intellettuale e saggezza. 20 anni di maturità. Un giovane vecchio. Facciamo un passo indietro. Torniamo a quei titoli vinti in nerazzurro. Il preludio a un nuovo step, l’ultimo prima del salto: “In Primavera si è super coccolati. Andavamo in trasferta in charter e ci si allenava spesso con la prima squadra. Tutto questo rischia di offuscarti un po’ la vista”. E quando ci giochi comprendi le differenze tra settore giovanile e il mondo delle Prime Squadre: “Ti rendi conto che è un altro calcio. In Primavera spesso si sminuisce la Serie C, c’è una sorta di rifiuto. Poi quando ci giochi capisci la grande differenza e quanto sia difficile competere”.
Con la Primavera i primi contatti con l’Inter dei grandi. I primi allenamenti, i primi viaggi con il charter, le prime esperienze: “L’anno del covid mi sono allenato spesso con loro. Mi è servito sotto tutti i punti di vista. Uno che mi ha aiutato molto è stato Sanchez”. Persone normali, professionisti nel lavoro: “Amano il calcio”. L’allenatore? Antonio Conte: “Un martello, teneva sempre alta l’attenzione”. Un anno speciale, quello dello scudetto: “Si respirava un’aria diversa. Si capiva che sarebbe stata una grande stagione”. Istantanee nella mente: “Barella e Hakimi prendevano sempre in giro Lukaku ogni volta che perdeva e lui impazziva. E poi la tecnica di Eriksen. Una pulizia ed eleganza di calcio incredibile”. A centrocampo esempi a cui ispirarsi: “Barella mentalizzato, ha sempre fame. E Brozovic un riferimento. Non sbagliava mai”. E fuori dall’Inter: “De Bruyne”.
Grande Niccolò lo è dovuto diventare. Un processo necessario per riuscire a costruire e mantenere un equilibrio tra pressioni, aspettative e sogni. Inter significa Milano. Milano significa anche tentazioni: “Bisogna saper usare la testa”. A maggior ragione in una società che pone a suoi paradigmi il successo e la velocità. Un mondo capace di esaltarti, per poi dimenticarti l’istante successiva. La performance posta come elemento cardine. Un flusso in cui mantenere un equilibrio diventa la conquista più importante: “Ciò che conta è riuscire a rimanere distaccato da tutte quelle che possono essere le voci che ti circondano. Io ho avuto la fortuna di avere la mia famiglia con cui mi sono sempre confrontato”. Un confronto e una visione alternativa. Un punto di vista diverso per imparare a “relativizzare e distinguere tutti gli elementi e le pressioni della realtà cui vivi”. Essere protagonista della propria storia. Viverla, non subirla passivamente. Razionalità ed equilibrio.
Si cresce. E quando si cresce si inizia a camminare da soli. Per la prima volta Niccolò lascia la sua casa, quella nerazzurra. Nuova esperienza, nuove sensazioni. Il salto con i grandi. Prima fermata, Juve Stabia: “Mi sono reso conto della differenza con la Primavera. Una stagione un po’ sfortunata per alcuni problemi fisici. Mi sono dovuto confrontare con gente molto più grande di me. Evacuo aveva la stessa età di mia mamma”. In estate un nuovo prestito. Si torna in Lombardia, i colori sempre il nerazzurro: “Cercavo un progetto serio come Renate”. L’incontro con Dossena: “Assomiglia a Conte, siamo obbligati ad andare forte”. Una voce interviene: “Devi calciare di più con il tiro che hai”. È il ds Obbedio, appena arrivato in sede. Parole che certificano la fiducia che Renate ha in Niccolò Squizzato. Un gruppo nuovo in cui si è subito integrato. Una squadra ci cui è sempre più protagonista. Intelligenza e predisposizione.
Una maturità rara per gli anni di Niccolò. Merito del suo passato e della sua mentalità. Quando parli e chiedi di Niccolò è una la caratteristica comune nelle parole di chi lo racconta: la voglia di imparare, continuamente. L’attenzione e la predisposizione di misurarsi con i più grandi: “Questo grazie anche a un mental coach con cui lavoro. Fino alla Primavera spesso mi adagiavo. Ora no, cerco di catturare qualsiasi cosa, sfruttare ogni possibilità per crescere”. Maturare in ogni piccolo dettaglio. Non accontentarsi di ciò che si è per diventare ciò che si vuole. Umiltà, educazione e determinazione. Arrivato a 7 anni, una vita in nerazzurro. La prima squadra, per ora, l’ha solo toccata. Obiettivi chiari in testa. Umiltà e consapevolezza come sue coordinate: “Il sogno è esordire con la maglia dell’Inter e giocare la Champions. So che sarà difficile. Altrimenti ci arriverebbero tutti. Sono convinto di potercela fare, essere giovane e avere il tempo per conquistarmela. Se non ci arrivo sarà responsabilità mia. Chi merita arriva”. La firma, Niccolò Squizzato.
Un’ultima domanda. Come lo immagina un centrocampo tutto italiano? “Squizzato, Barella e Tonali”. Non male. All’orizzonte, luci a San Siro.
A cura di Nicolò Franceschin
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