Zeman a 360 gradi. L’ex allenatore del Foggia ha parlato ai microfoni del Corriere della Sera facendo un viaggio in tutta la sua vita, dall’infanzia a Praga al tanto amato calcio. Passando appunto per Foggia e il presidente Casillo. “Era il 1990, il 9 novembre era crollato il muro. Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Mi sono sentito felice”. Poi il carcere per Casillo: “E io andai all’uscita ad aspettarlo. Sapevo che era innocente. L’hanno riconosciuto dopo tredici anni. Era un uomo generoso. Avevamo un terzino sinistro velocissimo, Codispoti, che al momento del cross combinava di tutto, con i piedi che aveva. Allora Casillo gli mise centomila lire nella scarpa: se non sbagliava poteva tenersele”.
Oltre alle varie Roma, Lazio e Foggia. uno degli ultimi miracoli di Zeman è stato quello del Pescara, grazie a tre che oggi conosciamo bene. “Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale”.
Da Pescara alla “battaglia al sistema”. Partita “solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza. Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come Gaucci. Lui almeno fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve”.
Per una carriera sembrava come se Zeman ce l’avesse con la Juventus, e invece: “Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera. Io ce l’avevo con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai io in Italia. La differenza è che Nedved voleva allenarsi pure il giorno di Natale. Mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima”.
Lo zio che vinse due scudetti consecutivi da allenatore. “Nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco”.
Vycpálek che poi fu devastato per la morte di suo figlio nel disastro aereo di Punta Raisi. “Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002”. Quell’Inter che Zeman era stato anche vicino ad allenare. “Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti“.
Questo dopo l’esonero dalla Roma. “Il sistema convinse Sensi che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla“. E l’inizio della prima storia con la Roma fu strano. “Dopo la firma nella Banca di Roma, la Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero”.
Con la Roma la stagione più difficile fu quella del 1998-1999. “Fu un calvario di torti arbitrali che costarono alla mia Roma almeno 21 punti“. Tutto dopo lo scandalo del doping, partito anche dopo le dichiarazioni di Zeman. Non ci fu nessuna condanna, ma “non perché il fatto non sussistesse, ma perché “non era previsto dalla legge come reato”. Saltò il presidente del Coni, cominciarono controlli anti-doping seri. E i risultati si videro subito. Giocatori trovati positivi inventarono scuse puerili. Ci finirono dentro pure Davids e Guardiola. E io pagai un prezzo altissimo. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti“.
Nonostante tutto, a Roma lo ricordano con piacere su entrambe le sponde. “Vivo a Roma da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene“. Specialmente un romano (e romanista) doc. “Totti è stato il miglior giocatore che ho allenato. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato”.
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